Il giorno seguente Adnan fu nostro ospite, dopo il primo momento
d’imbarazzo e timidezza, mangiò come se fosse a casa sua! Ogni volta diceva
basta, ma ne prendeva ancora e non smetteva di dire che era tutto buono: “E’ da
molto che non mangio pollo, patate e cavolfiore… che brava signora, è
buonissima questa makloubeh…” Tuttavia
non smetteva di dire che era profugo, che proveniva da una famiglia di
profughi, vivevano nel campo di Deheshahe e di quanto fosse dura la vita dei
profughi.
“Lo spazio stretto e le case sono l'una addossata all’altra,
invece, la vostra casa è così bella spaziosa e luminosa, c'è anche il cortile!
Da noi, invece, ci sono le fogne nelle viuzze del campo, odore fetido ma ci
sono abituato, la spazzatura… la sporcizia! Com’è dura la vita nel campo! Mia
nonna dice che un giorno anche noi ritorneremo a casa nostra, dice che è fatta
di pietra come la vostra, abbiamo un terreno pieno piante di arancio, limoni e
pompelmo. Un giorno torneremo, questo campo è solo momentaneo, perché essere
profughi è dura ed è ingiusto, noi vogliamo la nostra casa che gli israeliani
ci hanno rubato!”
I miei genitori ascoltavano, lasciandolo parlare con pazienza e
comprensione. Cercavano di fargli capire che non eravamo ricchi, e che noi
abbiamo avuto solo fortuna, ma anche tre figli immigrati per poter avere questa
casa. Intanto Adnan continuava con la sua litania, il suo essere profugo. Finché
mia madre, quasi offesa, gli disse: “Figliolo, non siete solo voi i profughi, siamo
tutti profughi!”
Questa fu la sua sentenza e cosi chiuse il discorso, non c'era
possibilità di ulteriori chiacchiere o commenti, questa era la sua sentenza, fine.
Ci fu un silenzio che durò qualche secondo, mi sembrava infinito, un lungo
attimo di riflessione.
Siamo tutti profughi? Non avevo mai sentito mia madre dire
questa cosa, parlare di profughi? Nonostante mia zia vivesse in un campo
profughi, sempre alla periferia di Betlemme, all'estremo opposto del campo di Deheshah.
Fui comunque colpito da questa frase e cercai di capire cosa volesse dire.
Sono nato a Betlemme, in una camera grande, che di giorno era
soggiorno e di notte camera da letto per tutti, genitori e figli, dormivamo e
mangiavamo tutti insieme, il sole non entrava ed il bagno era in comune con gli
altri appartamenti. Ad ogni modo, ero anch’io un profugo? Questo non lo sapevo
e non mi disturbava, semplicemente, non capivo perché i miei genitori non
avessero mai raccontato questo fatto.
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