mercoledì 10 maggio 2017

Il mostro sulla collina

Appena scendevamo dal l'autobus: mia madre cambiava espressione, si guardava intorno nella speranza che passasse qualche macchina o qualche mezzo di trasporto, evitandoci la fatica della strada. Tuttavia, dopo circa dieci minuti di cammino, ecco che accelerava il passo, la camminata diventava una corsa affannosa. Aveva la cesta sulla testa con qualche dono per lo zio, un po' di caffè, caramelle, zucchero... poche cose, ma avevano il loro peso: nonostante ciò, lei aveva il passo veloce, una cavalla selvaggia che non sa cosa significhi la fatica.
Tuttavia, adesso comprendo perché quella donna diventava così angosciata e scattante.

Alla nostra sinistra c'era una sorta di fortezza, una colonia israeliana, un mostro giacente sulla collina, una cancellata immensa con soldati armati fino a denti. Mia madre senza guardare, pur guardando, sveltiva il passo, sentivo il suo cuore accelerare il battito, la trascinava in folle corsa e lei trascinava me. La sua mano era sudata, ma dalla presa sempre più forte, mi trascinava con lei a seguire il suo cuore improvvisamente impazzito.

Io guardavo quel mostro: cosa ci faceva lì? Fra gli alberi di olivo, su quella collina che dominava la pianura! Quanto era brutta quella fortezza e quei soldati, in quel verde così profumato e bello. Mia madre, intanto, accelerava il passo sempre di più e sembrava dire: ‘fai come me, non guardare lì!’ Tuttavia io guardavo di nascosto, c'erano i soldati armati e qualche volta c'erano bambini, non avevo mai capito se ci stessero salutando o minacciando...

Inoltre, c’erano numerose torrette e filo spinato, loro ci osservavano e noi senza guardarli sentivamo i loro sguardi cattivi, come quel cancello: sembrava una grande bocca pronta ad inghiottirci. Occorreva accelerare il passo e superare quella costruzione spaventosa aliena dalla natura, che sapeva di case senza cancello e senza armi, case semplici, vive alla luce di una lanterna al petrolio.
Appena si arrivava al villaggio, superato il mostro, il cuore di mia madre assumeva il suo ritmo regolare. I bambini ci accoglievano con gioia e curiosità come dire: ecco la gente di città!
Sembrava quasi che ci toccassero per vedere se eravamo uguali a loro! Noi... vestiti bene e puliti.
Ma mia madre, il sospiro di serenità lo faceva solo quando eravamo a casa di mio zio, un buon bicchiere d’acqua ed ecco il grande anelito di liberazione.

Superata la fase di perplessità, ed acquisito un po’ di confidenza con l'ambiente ed i cugini che non vedevo da un anno, iniziavo con loro la corsa fra gli alberi, e a saltare giù per la valle. Ecco l'uva fresca, ecco la bella vita in attesa del pranzo: un agnello sacrificato nel nostro onore con yogurt e riso a volontà.

La porta della casa restava aperta e le persone entravano a mangiare come se fosse casa loro, non avevano bisogno d’invito o complimenti, i bambini timidi avevano le tasche dei pantaloni gocciolanti di grasso: i pezzi di carne che i grandi gli offrivano, li mettevano in tasca e correvano fuori a mangiarli, lontano dagli sguardi della gente di città!


Nessun commento:

Posta un commento

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Di Omar Suboh

Postfazione Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Scrivere una postfazione per un autore è, e...