Appena scendevamo dal
l'autobus: mia madre cambiava espressione, si guardava intorno nella speranza
che passasse qualche macchina o qualche mezzo di trasporto, evitandoci la
fatica della strada. Tuttavia, dopo circa dieci minuti di cammino, ecco che
accelerava il passo, la camminata diventava una corsa affannosa. Aveva la cesta
sulla testa con qualche dono per lo zio, un po' di caffè, caramelle,
zucchero... poche cose, ma avevano il loro peso: nonostante ciò, lei aveva il
passo veloce, una cavalla selvaggia che non sa cosa significhi la fatica.
Tuttavia, adesso comprendo perché
quella donna diventava così angosciata e scattante.
Alla nostra sinistra c'era
una sorta di fortezza, una colonia israeliana, un mostro giacente sulla
collina, una cancellata immensa con soldati armati fino a denti. Mia madre
senza guardare, pur guardando, sveltiva il passo, sentivo il suo cuore
accelerare il battito, la trascinava in folle corsa e lei trascinava me. La sua
mano era sudata, ma dalla presa sempre più forte, mi trascinava con lei a
seguire il suo cuore improvvisamente impazzito.
Io guardavo quel mostro:
cosa ci faceva lì? Fra gli alberi di olivo, su quella collina che dominava la
pianura! Quanto era brutta quella fortezza e quei soldati, in quel verde così
profumato e bello. Mia madre, intanto, accelerava il passo sempre di più e
sembrava dire: ‘fai come me, non guardare
lì!’ Tuttavia io guardavo di nascosto, c'erano i soldati armati e qualche
volta c'erano bambini, non avevo mai capito se ci stessero salutando o
minacciando...
Inoltre, c’erano numerose
torrette e filo spinato, loro ci osservavano e noi senza guardarli sentivamo i
loro sguardi cattivi, come quel cancello: sembrava una grande bocca pronta ad
inghiottirci. Occorreva accelerare il passo e superare quella costruzione
spaventosa aliena dalla natura, che sapeva di case senza cancello e senza armi,
case semplici, vive alla luce di una lanterna al petrolio.
Appena si arrivava al
villaggio, superato il mostro, il cuore di mia madre assumeva il suo ritmo
regolare. I bambini ci accoglievano con gioia e curiosità come dire: ecco la gente di città!
Sembrava quasi che ci
toccassero per vedere se eravamo uguali a loro! Noi... vestiti bene e puliti.
Ma mia madre, il sospiro di
serenità lo faceva solo quando eravamo a casa di mio zio, un buon bicchiere d’acqua
ed ecco il grande anelito di liberazione.
Superata la fase di
perplessità, ed acquisito un po’ di confidenza con l'ambiente ed i cugini che
non vedevo da un anno, iniziavo con loro la corsa fra gli alberi, e a saltare
giù per la valle. Ecco l'uva fresca, ecco la bella vita in attesa del pranzo:
un agnello sacrificato nel nostro onore con yogurt e riso a volontà.
La porta della casa restava
aperta e le persone entravano a mangiare come se fosse casa loro, non avevano
bisogno d’invito o complimenti, i bambini timidi avevano le tasche dei
pantaloni gocciolanti di grasso: i pezzi di carne che i grandi gli offrivano,
li mettevano in tasca e correvano fuori a mangiarli, lontano dagli sguardi
della gente di città!
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