mercoledì 31 maggio 2017

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza. Di Omar Suboh

Postfazione

Raccontare la Palestina e la sua collettività come pratica di Resistenza.

Scrivere una postfazione per un autore è, e rimane, un compito arduo, ma il tutto è reso ancora più delicato se l’autore in questione risulta essere il proprio padre. In tempi non sospetti si sarebbe parlato di ‘conflitto di interessi’, ma avendo assistito alla genesi di questi racconti come una lenta e progressiva evoluzione che ha preso corpo in maniera sempre più veloce e rapida, partecipando attivamente alla loro stesura con consigli, letture in tempo diretto, correzioni e confronti fisici (anche piuttosto accesi e vivi!), penso di essere arrivato al punto di poter esprimere un giudizio distaccato e disinteressato. Gente della terra santa è un’opera composta di racconti, una raccolta delle voci che vengono dal profondo di una terra sacra, violenta e poetica contemporaneamente.

Una narrativa corale che prende forma nell’epica del nostro tempo: l’occupazione. L’assedio di Gaza, i muri di separazione nella Cisgiordania, i campi profughi nel Libano ecc., vengono superati metaforicamente con la forza dell’immaginario.
Nella galleria di immagini che scorrono nei racconti, vi sono alcuni tratti che ritornano come elementi fissi, e penso ai racconti dei vecchi, seduti nelle case intorno ai propri familiari che pendono dalle loro labbra come profeti portatori della Verità di Dio. Le loro rughe, interrogate continuamente come se racchiudessero le risposte sepolte tra i solchi segnati dal Tempo.

Il racconto autobiografico si sovrappone al racconto dei protagonisti della terra di Palestina, traspare la solitudine in ambulatorio del medico/narratore, il quale in Gente della terra Santa, omonimo racconto che dà il titolo al libro, schiacciato dall’angoscia spera “nella visita di qualche paziente” (siamo a ferragosto!) Il suo interlocutore è un anziano minatore che non riesce a darsi pace della scomparsa di un suo vecchio amico, sepolto nella miniera di Serbariu. L’incontro sarà il pretesto per un viaggio, metaforico e reale, a Betlemme. Il tema del ritorno si affaccia con forza, infatti è dal ritorno nella propria terra che riaffiorano i ricordi mai svaniti della gente di quei luoghi, come Adnan. Ogni incontro ha la funzione di aprire nuove finestre sulla storia della Palestina, così come Adnan il ribelle che veniva allontanato dalla classe, perché non si accontentava dei programmi rigidamente imposti dall’alto che non lasciavano spazio alla conoscenza autentica delle vicende del suo paese.

In ogni episodio si viene a conoscenza di una serie di elementi che caratterizzano quei luoghi: le vie strette, le case di mattoni attaccate le une alle altre; i piatti tipici, per citarne alcuni come la maqluba (‘rovesciata’ di riso con melanzane e cavolfiore), l’hummus e i falafel, il dolce knafeh ecc.; i costumi tradizionali nel racconto della nonna, la quale afferma di poter riconoscere dai colori e dai disegni ricamati dei vestiti di chi li indossa, il paese di provenienza; la condivisione dei rituali, il multiculturalismo come rispetto e armonia delle differenti fedi che coesistono nella Terra Santa come crocevia (prima dell’affermazione del piano di spartizione); gli aranceti di Jaffa e le sue fabbriche di carta, il vetro soffiato di Hebron, il sapone di Nablus, le piante di ulivo da proteggere come l’orto dall’attacco dei coloni. Questi sono solo alcuni degli elementi simbolici che caratterizzano i racconti, tra cui uno dei più importanti è rappresentato dalla chiave custodita dalla nonna, metafora della Liberazione della Palestina.

Il piano dei racconti si sovrappone di continuo in un rapporto di commistione tra verità e fiaba, nella quale emerge la coralità dei suoi protagonisti, come nel racconto Il vecchio e il passerotto, dove gli abitanti del campo profughi di Mar Elias in Libano prendono a turno la parola scaricando la loro tensione e la rabbia dettata da una condizione disumana. In questo racconto leggiamo dell’incontro tra il suo protagonista, il vecchio Abu Salem, e la Morte (“la sagoma entrò galleggiando con pesantezza, togliendo la luce e l’aria a quella povera stanza, e si accovacciò in un angolo”). Sarà l’incontro con il passerotto a segnare la sconfitta della Morte e la riaffermazione della Vita: «sorvolarono il cielo del campo ancora assopito […] ecco la Palestina: Acri, Haifa, ecco Jaffa, Gaza, Hebron, Gerusalemme con la sua cupola splendente».

La voce di tutto un popolo riemerge con poesia, fantasia e resistenza. Raccontare la Palestina come un ‘universale fantastico’ che racchiude nella sua storia tutte le particolari resistenze nel mondo, come Omero voce della collettività del popolo greco. Ecco, la Palestina come la Resistenza per antonomasia, che raccoglie in sé tutte le resistenze particolari sparse nella terra.

Se come scrive Mahmoud Darwish «l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante», oggi in Palestina, e nel mondo, l’arte rappresenta ancora uno dei metodi migliori per Resistere.

Omar Suboh 


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